Oggi ho avuto una discussione piuttosto intensa con un amico/conoscente riguardo alla situazione in Palestina, e devo ammettere di aver notato una profonda ignoranza nelle sue parole. Mentre cercavamo di affrontare un argomento così complesso e delicato, è diventato chiaro che la sua comprensione della situazione era gravemente distorta.
Ciò che mi ha scioccato ancor di più è stato il fatto che questa ignoranza sembrava essere alimentata da anni di disinformazione e stereotipi perpetuati dai media e da un’agenda filo-americana che sembra discriminare costantemente i popoli arabi e la loro cultura, spesso dipingendo l’Islam come il male assoluto.
Mentre non nego la complessità di questo conflitto, la sua totale negazione delle evidenti disuguaglianze di potere e delle politiche discriminatorie è stata alquanto inquietante. Mi sono sforzato di portare argomenti basati su fatti e prove per sottolineare l’importanza di una visione più completa e bilanciata della situazione. Ho sottolineato le continue violazioni dei diritti umani, le demolizioni di case palestinesi e l’espansione degli insediamenti israeliani come prove di un’agenda coloniale.
Tuttavia, il mio conoscente sembrava impermeabile a queste informazioni, poiché sembrava avere una visione distorta radicata dagli stereotipi e dalla disinformazione perpetuata dai media. Questa discussione ha sollevato il mio desiderio di continuare a educarmi su questa questione e di cercare un dialogo più informato e costruttivo con chiunque sia disposto ad ascoltare e discutere apertamente. La situazione in Medio Oriente è complessa, e il dialogo aperto è fondamentale per cercare di comprendere appieno i problemi e le sfide che entrambi i popoli affrontano in quella regione, spogliando la discussione da pregiudizi e stereotipi.
Questo purtroppo, conferma e sottolinea la profonda e grandissima IGNORANZA che c’è in giro per il mondo.
Prima di esporre concetti e giudizi, si dovrebbe prima STUDIARE l’argomento , dedicarci ore, libri, articoli, interviste solo così si può avere un pensiero personale sulle vicende. Va bene ascoltare il telegiornale, ma credo sia altrettanto giusto mettere in discussione TUTTE le informazioni che riceviamo. Che siano parallele al nostro pensiero oppure completamente distanti, non cambia, verificare sempre con dati alla mano e prove.
Tutto ciò che non può essere provato, è fino a prova contraria, una supposizione.
Se hai mai lavorato in un ufficio, probabilmente hai avuto il dubbio che i tuoi colleghi fossero dotati di un talento particolare: parlare dietro alle persone. In questo articolo, esploreremo le sottili sfumature del colleghismo tossico, esponendo alcune problematiche comuni che possono emergere in un ambiente lavorativo.
Gossip di Corridoio: Il Teatro delle Ombre Nel mondo dell’ufficio, i corridoi spesso diventano palcoscenici per drammi sotterranei. Colleghi tossici prosperano nel diffondere pettegolezzi e chiacchiere di corridoio, alimentando un circolo vizioso di indiscrezioni che può minare la fiducia e l’armonia nel team.
Falsità in Agguato: Quando la Sincerità è un Lusso Raro I colleghi falsi possono essere maestri nell’arte dell’ipocrisia. Dal sorriso falso alle lodi insincere, navigare in un mare di falsità può rendere l’ambiente lavorativo stressante e, a volte, persino alienante.
Rapporti Intimi con il Capo: Quando l’Etica Professionale Vacilla Alcuni colleghi potrebbero approfittare dei rapporti più stretti con il capo, creando tensioni e discordie nel team. La mancanza di trasparenza può minare la morale e la coesione, creando un divario tra chi è nell’”inner circle” e chi non lo è.
Competizione Nascosta: La Corsa al Successo Individuale In un ambiente lavorativo competitivo, alcuni colleghi potrebbero vedere i propri compagni come ostacoli piuttosto che alleati. La competizione nascosta può portare a sabotaggi sottili e gelosie, compromettendo il raggiungimento degli obiettivi comuni.
Sfide Comunicative: Quando il Dialogo è un Lusso Raro La mancanza di comunicazione aperta e onesta può amplificare le tensioni. Colleghi che evitano il confronto diretto e preferiscono il silenzio o le parole indirette creano un terreno fertile per incomprensioni e risentimenti.
Mentre affronti queste sfide quotidiane, ricorda che la consapevolezza è la prima difesa contro il colleghismo tossico. Sviluppare una cultura di rispetto, comunicazione aperta e cooperazione può contribuire a creare un ambiente lavorativo più sano e produttivo.
Navigare attraverso le complessità delle dinamiche del team può essere impegnativo, ma affrontare queste problematiche di petto può portare a un ambiente lavorativo più armonioso e gratificante per tutti.
Negli ultimi decenni, il fenomeno dell’anti-americanismo è diventato sempre più evidente in molte parti del mondo. Questo sentimento, che può variare da una semplice critica agli Stati Uniti a una vera e propria ostilità, è stato oggetto di dibattito e discussione in tutto il mondo. Ma quali sono le motivazioni alla base di questo fenomeno? Per comprendere meglio l’anti-americanismo, è importante esaminare le sue radici e le diverse ragioni che lo alimentano.
*Le Radici Storiche dell’Anti-Americanismo*
L’anti-americanismo ha radici storiche profonde che risalgono all’epoca coloniale. Molti paesi hanno sperimentato l’imperialismo statunitense, con interventi militari e politiche estere spesso percepite come un’ingerenza negativa negli affari interni di altre nazioni. L’America Latina, ad esempio, ha una lunga storia di ostilità nei confronti degli Stati Uniti a causa dell’interventismo e del sostegno a regimi autoritari nella regione.
Inoltre, l’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza mondiale dopo la Seconda Guerra Mondiale ha portato ad una diffusa percezione di egemonia americana. Questo ha alimentato il sospetto che gli Stati Uniti cercassero di dominare il mondo a spese di altre nazioni, il che ha contribuito a rafforzare il sentimento anti-americano.
*Motivazioni Economiche ed Egeo-Culturali*
Molte delle motivazioni alla base dell’anti-americanismo sono legate a questioni economiche e culturali. L’espansione del capitalismo e del consumismo americani ha portato a una diffusione della cultura popolare americana, che ha influenzato i costumi e i valori in molte parti del mondo. Questo ha suscitato timori di omologazione culturale e ha alimentato l’antipatia nei confronti degli Stati Uniti.
Le politiche economiche statunitensi, spesso orientate verso l’apertura dei mercati e il libero scambio, sono state accusate di danneggiare le economie locali in molte regioni, provocando tensioni economiche che hanno contribuito all’anti-americanismo.
*Le Politiche Esterne e la Guerra al Terrore*
Le politiche estere degli Stati Uniti, in particolare la Guerra al Terrore, hanno suscitato forti reazioni negative in molte parti del mondo. L’invasione dell’Iraq nel 2003 e l’uso di droni nelle operazioni militari hanno alimentato la percezione di un approccio bellicoso e unilaterale da parte degli Stati Uniti. Questi eventi hanno contribuito notevolmente all’anti-americanismo globale.
*Conclusioni*
L’anti-americanismo è un fenomeno complesso e multifattoriale, con radici storiche profonde e motivazioni variegate. Non tutti gli atteggiamenti critici verso gli Stati Uniti sono necessariamente negativi; spesso sono una risposta alle politiche e alle azioni specifiche del governo americano. Tuttavia, è importante distinguere tra una critica legittima e un pregiudizio generale contro il popolo americano.
Questa è la mia versione più obbiettiva possibile, a riguardo delle Pratiche perpetrate dalla famigerata “Mamma America”.
Ovviamente, pratiche Coloniali in versione 2.0 sono tutt’altro che concepite e sostenute dallo scrivente, l’esportazione di democrazia tanto decantata dall’America è una continua caccia al profitto ed al potere.
Come si può simpatizzare con Governi e Mentalità Simili?
Oggi vogliamo affrontare un argomento di grande risonanza storica e sociale: la questione delle menzogne che coinvolge la storia della Chiesa Cattolica. Attraverso i secoli, la Chiesa ha giocato un ruolo centrale nella storia del mondo, ma come spesso accade, il potere può dare luogo a segreti e distorsioni. In questo articolo, esploreremo alcune di queste ombre del passato.
1. Le Crociate: Guerre di Religione o Conquiste di Potere?
Le Crociate sono spesso state presentate come guerre sante per difendere la fede cristiana, ma la realtà è molto più complessa. Alcuni studiosi suggeriscono che le Crociate fossero in realtà mosse dalla sete di potere, ricchezza e territorio, travestite da una “missione divina”. La ricerca storica ci ha insegnato che dietro alle Crociate si nascondevano molteplici motivazioni, spesso molto terrene.
2. La censura dei testi antichi
La Chiesa Cattolica ha svolto un ruolo importante nella conservazione di testi antichi, ma ha anche censurato o distrutto documenti che non si adattavano alla sua narrazione. Questa pratica di “pulizia” della storia ha influenzato la nostra comprensione del passato e ha lasciato molte domande senza risposta.
3. L’Inquisizione: Giustizia o Repressione?
L’Inquisizione è un altro aspetto controverso della storia della Chiesa Cattolica. Mentre la Chiesa sostenne che fosse necessaria per sradicare l’eresia, molti vedono questo periodo come un’epoca di repressione, tortura e persecuzioni. La verità è che l’Inquisizione può essere vista da diverse prospettive, ma rimane un capitolo oscuro nella storia religiosa.
4. Scandali e abusi
Nel corso dei secoli, la Chiesa Cattolica è stata scossa da numerosi scandali e accuse di abusi, dal caso Galileo alla più recente crisi degli abusi sessuali. Questi eventi hanno sollevato domande sulla moralità e l’integrità della Chiesa, sfidando la sua autorità e credibilità.
Alla Ricerca della Verità
È importante sottolineare che questi aspetti controversi non rappresentano l’intera storia della Chiesa Cattolica, che ha anche avuto un impatto positivo sulla società e sulla cultura. Tuttavia, è fondamentale affrontare apertamente le ombre del passato e cercare la verità storica.
In conclusione, esplorare la storia della Chiesa Cattolica significa affrontare sia le sue glorie che le sue ombre. La verità è spesso complessa e sfaccettata, ed è essenziale che dobbiamo comprendere appieno il passato per costruire un futuro migliore basato sulla verità e sulla giustizia. La storia è sempre in evoluzione, e la ricerca della verità è una parte fondamentale del nostro viaggio come individui pensanti.
Alla Ricerca di Equilibrio in un’Epoca di Cambiamento
Cari lettori di Ribelle Conformista,
In un’epoca in cui il femminismo ha guadagnato forza e visibilità come mai prima d’ora, è importante affrontare un argomento delicato ma rilevante: il ruolo dell’uomo nelle relazioni di coppia e nella vita di tutti i giorni. Troppo spesso, l’uomo è relegato in secondo piano o considerato “dovuto” in termini di contributo e partecipazione. Ma oggi, esploriamo l’importanza di riconoscere e celebrare il suo ruolo nell’era moderna.
La Parità di Genere: Un Obiettivo Giusto
Prima di tutto, è fondamentale sottolineare che la lotta per la parità di genere è un obiettivo giusto e necessario. Nessun genere dovrebbe essere messo in una posizione di superiorità o inferiorità nelle relazioni o nella società. Il movimento femminista ha contribuito a far progredire notevolmente la causa dell’uguaglianza, e questo è un traguardo importante.
L’Uomo nella Relazione di Coppia: Un Partner Equo
Tuttavia, è altrettanto importante riconoscere che l’uomo ha un ruolo cruciale nelle relazioni di coppia. Troppo spesso, si presume che l’uomo debba essere automaticamente il fornitore finanziario o che debba adempiere a determinati compiti senza domande. In realtà, una relazione di successo è basata sulla parità, sulla comunicazione e sulla collaborazione.
L’uomo moderno non è semplicemente “dovuto” a svolgere un certo ruolo, ma è un partner equo che contribuisce alla relazione in modo significativo. Questo può essere attraverso la condivisione delle responsabilità domestiche, la partecipazione attiva nell’educazione dei figli o il supporto emotivo reciproco.
L’Equilibrio tra Uomo e Donna
La chiave per una relazione sana e appagante è trovare un equilibrio tra i ruoli di entrambi i partner. Ciascun individuo dovrebbe avere la libertà di stabilire i propri interessi e passioni, senza che ciò sia visto come una minaccia per la relazione. Inoltre, la comunicazione aperta e l’empatia reciproca sono fondamentali per risolvere le sfide che possono sorgere.
Conclusione
In conclusione, mentre il femminismo continua a guidare importanti cambiamenti nella società, è fondamentale non perdere di vista l’equilibrio nelle relazioni di coppia. L’uomo moderno non è semplicemente “dovuto” a svolgere determinati ruoli, ma è un partner equo e prezioso. La vera parità di genere si realizza quando ognuno può essere se stesso, contribuendo in modo autentico alla relazione. In questo modo, possiamo costruire relazioni forti, basate sulla comprensione reciproca e sulla collaborazione.
Cari ribelli e conformisti, è da un po’ che non pubblico nulla, non chiedetemi il perché. ma oggi , sputo un altro po’ di sentenze e ribellione… ecco qua:
Chi di noi non si è mai sentito imprigionato nella gabbia del lavoro, con il tempo che scorre via troppo rapidamente e il nostro tempo prezioso che sfugge tra le dita come sabbia? È un problema che colpisce molti di noi, e oggi vogliamo esplorare questa sfida che affligge i lavoratori di tutto il mondo.
Un Mondo che Mai Si Ferma
Il mondo moderno è frenetico. Lavoriamo più ore che mai, spesso sacrificando il tempo con la famiglia, gli amici e, cosa più importante, il tempo per coltivare le nostre passioni. È come se fossimo intrappolati in un ciclone di email, riunioni e scadenze che sembrano non avere mai fine. È tempo di porre fine a questa schiavitù moderna.
La Schiavitù del Cubicolo
I cubi d’ufficio sono diventati le nostre nuove prigioni. Passiamo ore e ore al lavoro, seduti davanti a un computer, dimenticando che fuori da quelle pareti grigie c’è un mondo pieno di meraviglie da esplorare. Il tempo passato con la famiglia e gli amici è spesso sacrificato sull’altare del successo professionale. Ma alla fine di tutto, cosa ci resta davvero?
Riscopriamo la Nostra Libertà
Non dobbiamo accettare questa situazione come inevitabile. Possiamo ribellarci a questa cultura del “lavorare sempre” e ritrovare il nostro equilibrio tra lavoro e vita. Ecco alcune idee per iniziare:
Stabilisci dei confini: Impara a dire “no” quando è necessario. Il tuo tempo libero è sacro, e nessun progetto aziendale dovrebbe metterlo in pericolo.
Trova il tuo passion project: Dedica del tempo alle tue passioni. Che sia la pittura, la musica o la scrittura, coltivalo. Queste passioni possono ravvivare la tua anima e darti una prospettiva diversa sulla vita.
Riprendi il controllo del tuo tempo: Gestisci il tuo tempo al lavoro in modo più efficiente. Meno tempo sprecato significa più tempo per te stesso e per ciò che ami.
Promuovi la flessibilità: Cerca di negoziare opzioni di lavoro flessibili con il tuo datore di lavoro. Un equilibrio tra lavoro e vita migliora la produttività e la felicità sul posto di lavoro.
Il tempo è il bene più prezioso che abbiamo, e non dovremmo permettere al nostro lavoro di rubarlo senza pietà. È giunto il momento di ribellarci a questa cultura del lavoro e ricordare che siamo molto più di soli lavoratori. Siamo amici, genitori, artisti, viaggiatori e sognatori.
Cerchiamo di creare un mondo in cui il lavoro sia un mezzo per raggiungere i nostri scopi, non l’unico scopo. È il momento di mettere fine a questa schiavitù moderna e abbracciare la nostra libertà di vivere una vita più appagante.
La vostra vita è troppo preziosa per essere sprecata in un cubo grigio.
Ormai tutto ci scorre a fianco, senza toccarci minimamente, forse è una forma di autoprotezione, ma obbiettivamente, cerchiamo di sbattercene il più possibile su praticamente tutto.
La Morte, la povertà, la guerra, la cronaca nera che oramai riempie le nostre giornate e scorre sopra i nostri occhi in ogni modo, e su ogni piattaforma, social, televisione, radio e per i pochi che ancora portano avanti la tradizione, anche sulla carta stampata.
Prima era tutto, sempre troppo lontano, in altri continenti, altre culture, tutto abbastanza lontano da guardare con sufficienza e menefreghismo.
Poi il Covid, che arriva come un meteorite sulle nostre vite, sconvolgendole, cambiando le carte in tavola dall’oggi al domani, quell’epidemia che avrebbe dovuto unirci tutti, ristabilire le priorità, altro non ha fatto che rendere le nostre emozioni ancora più sterili, e l’unica cosa che abbiamo riscoperto è stato il far da mangiare in casa, il pane, la pasta, i pranzi…. Tutte cose che abbiamo già messo nel cassetto dei ricordi.
Ma, nel profondo, cosa ci ha portato il “Periodo Covid”?
Sterilità, completa sterilità, non in senso riproduttivo, ma in senso emotivo.
Lo sciorinarci ogni giorno numeri esorbitanti di morti, cadaveri, le immagini dei camion pieni di Morti hanno fatto si, che ci abituassimo alla cosa.
Come le giornate passate con lo sguardo sul telefono, il capo chino, contando gli infetti ei deceduti, per dedurre in quale zona colorata ci saremmo trovati nella settimana successiva.
Poi, all’improvviso, come una bomba (nel vero senso della parola) arriva la Guerra in Ucraina.
Una guerra in un certo senso, vicina, perché in territorio Europeo (Europa, concetto vago, e esclusivamente riservato ad una cerchia diplomatica, 9 persone su 10, non si sentono europee).
Sdegno totale, sgomento, solidarietà diffusa, per i primi tre mesi con il continuo “bombardamento” mediatico, poi? Chi ci pensa più alla guerra in ucraina?
La guerra “qui vicino” è arrivata allo stesso livello di tutte le centinaia di guerre che in tutti questi anni si sono svolte e tutt’ora si svolgono, a livello zero, a livello di quelle “guerre lontane”.
In pratica, non frega più un cazzo a nessuno.
Tutti questi numeri, immagini, morti, malattie, violenze, sono diventati Abitudine, e come ben sappiamo l’abitudine è letale, in ogni aspetto della nostra vita.
In un Paese in cui il senso di precarietà ha perso il suo carattere transitorio ed è diventato l’unica certezza, soprattutto per le fasce più giovani della popolazione, assistiamo al proliferare di coach, motivatori e sedicenti guru del “pensiero positivo”, che vorrebbero persuaderci che la realizzazione e l’appagamento personali dipendano esclusivamente dalla nostra volontà e tenacia. Insomma, vogliono convincerci che “Volere è potere”, e che tutto ciò che desideriamo sia alla nostra portata: basta solo impegnarsi. Una retorica pericolosa e fuorviante, che ci impedisce di riconoscere i nostri limiti e di comprendere che possiamo controllare solo una piccola parte della nostra vita. Prima o dopo, tutti dobbiamo fare i conti con l’imponderabilità di eventi che cambiano i nostri piani, costringendoci a pesanti rinunce e lasciandoci addosso un senso di fallimento. E quando falliamo, c’è sempre qualcuno che ci invita a non abbatterci, ad andare avanti a testa bassa verso i nostri obiettivi perché, se ce la mettiamo tutta, prima o poi riusciremo a farcela. Ma la realtà è ben diversa e la retorica del volere è potere, spesso, serve solo ad aumentare la percezione del fallimento e il nostro senso di inadeguatezza.
La nostra epoca è segnata dal bisogno di andare oltre i limiti che la natura umana ci impone, sempre e in qualunque campo. I progressi della scienza e la rivoluzione tecnologica ci permettono di fare, sempre più facilmente, una serie di cose che diamo ormai per scontate, ma che pochi anni fa sarebbero state impensabili per un essere umano. In qualsiasi parte del mondo ci troviamo, possiamo avere continui contatti con i nostri cari, riducendo al massimo la percezione della distanza. Abbiamo costantemente accesso a milioni di informazioni attraverso lo smartphone, ma soprattutto possiamo avere uno spazio social dove condividere contenuti e idee con migliaia di persone. Sul web possiamo essere chiunque, indossare maschere, applicare filtri a qualunque foto, addirittura crearci una vita parallela senza essere scoperti. Ma non è solo il digitale a convincerci di essere onnipotenti, perché la retorica del “volere è potere” si annida anche altrove.
Se siamo insoddisfatti del nostro aspetto, grazie alla chirurgia estetica possiamo modificare i nostri tratti somatici e “comprare” il viso e il corpo che vorremmo, e che per natura non ci è stato dato. Se ci invaghiamo di qualcuno che non ci corrisponde, arriva in nostro soccorso l’esperto di seduzione da migliaia di followers, pronto a suggerirci “le dieci regole che la (o lo) faranno innamorare immediatamente di noi”. Veniamo inoltre bombardati da messaggi e slogan che, sfruttando la retorica del self-made man, ci convincono che il nostro futuro e realizzazione personale dipendono esclusivamente dall’impegno che mettiamo nello studio, nel lavoro e nella costruzione di una carriera brillante. Persuasi da questa narrazione ingannevole, dimentichiamo che tutti dobbiamo fare i conti con la finitezza delle nostre possibilità e che la vita ci espone quotidianamente a cambiamenti improvvisi. Oltretutto, questa retorica non sembra considerare che le condizioni socio-economiche, culturali e ambientali in cui cresciamo determinano la gran parte del nostro futuro e che per rapportarci serenamente al nostro presente dobbiamo accettare che non tutti nasciamo con le stesse possibilità.
Paul Farmer, antropologo e medico statunitense scomparso pochi mesi fa, ha studiato il fenomeno della “violenza strutturale” – coniato dal sociologo norvegese Johan Galtung – per spiegare la teoria delle disuguaglianze sociali all’interno di uno stesso contesto, confutando la retorica che ci vorrebbe unici artefici della costruzione del nostro futuro. Dopo aver vissuto e lavorato a lungo nell’Haiti rurale, Farmer appurò che l’estrema opulenza e la miseria più abietta, spesso, coesistono all’interno del medesimo sistema politico ed economico. Secondo l’antropologo – che ne ha scritto nei suoi saggi Infections and Inequalities, uscito nel 1999, e Pathologies of Power, pubblicato nel 2003 – questa condizione si è tanto radicata da essere una diventata una struttura del mondo: se alcuni contesti accolgono le condizioni per una vita agiata, al riparo dall’insicurezza, dalla violenza e dalle scarse condizioni igieniche, altri sono ricettacolo di povertà, malattie e pericoli per l’incolumità dell’essere umano.
Secondo Farmer, la disuguaglianza di potere, ricchezze e privilegi non è data naturalmente, ma è il prodotto di secoli di lotte economiche, politiche e sociali. Chi nasce in un contesto di arretratezza economica e culturale, e di marginalità sociale, dovrà faticare enormemente per raggiungere le condizioni di benessere minime, e ciononostante potrebbe non avere mai accesso a determinati privilegi. Ciò non ha nulla a che fare con la volontà e la tenacia individuali, ma con delle strutture sociali consolidate e difficili da sradicare. Alcune categorie umane – tra cui Farmer cita le donne, gli omosessuali e gli appartenenti a determinate etnie – sono storicamente più esposte a forme di violenza e di discriminazione, maggiormente soggette a malattie, e devono faticare molto più degli altri per ottenere i diritti sociali e civili.
Il concetto di violenza strutturale dovrebbe darci la misura di quanto la nostra realizzazione non dipenda solo dal nostro impegno. Questo non significa essere lassisti, se le condizioni in cui nasciamo non sono favorevoli, ma evitare di colpevolizzarci laddove falliamo in qualcosa. Parole come resilienza e perseveranza, con la loro intrinseca positività, possono diventare dannose se ci impediscono di accettare i nostri limiti e di accogliere stati d’animo naturali come la stanchezza e l’abbattimento. Oltre a valutare le circostanze in cui nasciamo, è giusto tenere sempre presente che le nostre azioni sono frutto anche dell’attività inconscia; vivere ripetendoci che dovremmo andare a testa bassa verso in nostri obiettivi, può scontrarsi con nostre esigenze autentiche che ci sfuggono. I nostri obiettivi possono infatti derivare non da un desiderio profondo, ma da bisogni eteronomici e tappe uguali per tutti imposte dalla società.
Ripeterci che “volere è potere” aumenta la nostra mania del controllo e ci rende rigidi e impreparati di fronte agli eventi talvolta traumatici che ci capitano, dal lutto a un fallimento professionale, fino alle conseguenze di una pandemia. Spesso non consideriamo che la realtà intorno a noi si modifica, ci mette degli ostacoli sul cammino, e che impegno e tenacia non sono sufficienti per realizzare le nostre ambizioni. Fare del nostro meglio è sì importante, ma non significa procedere come muli e lasciarci spremere da meccanismi sociali che ci vogliono incrollabili. Significa accettare che non possiamo controllare tutto, che spesso siamo stanchi e perdiamo la fiducia e che in quei momenti non dovremmo permettere a nessuno – soprattutto a noi stessi – di colpevolizzarci o svilirci. Rischiamo di precipitare sempre di più in un abisso che ci vuole performanti, di successo, incapaci di riconoscere i nostri limiti e di accettare che a volte ci sentiamo stanchi e demotivati. E che va bene così. Alimentare la retorica secondo cui se non riusciamo è perché non lo abbiamo voluto abbastanza, perché non ci siamo impegnati come avremmo dovuto, ci induce a svalutarci e a pretendere troppo da noi stessi, riducendo la nostra autostima e rischiando stress psicologico e burnout. Col risultato che iniziamo a pretendere troppo anche dagli altri.
Se assecondiamo la retorica del successo a tutti i costi, finiamo per disistimare a prescindere chi, spesso per situazioni contingenti, non ha raggiunto una posizione professionale o sociale di prestigio. Ma questo è dannoso, perché tutti abbiamo bisogno della stima degli altri, indipendentemente dal fatto che riusciamo o falliamo. Come dimostrano alcuni studi del 2021, condotti da un gruppo di ricercatori guidato dall’esperto di leadership e dinamiche sociali Cameron Anderson, il riconoscimento sociale contribuisce in larga misura al nostro benessere, e non essere stimati può acuire depressione e infelicità. Per aumentare il benessere individuale e collettivo, dunque, è necessario ridimensionare il modello della persona che ottiene il successo con la sola caparbietà e smetterla di ammirare soltanto chi ha raggiunto determinati obiettivi. Dobbiamo essere sempre consapevoli che, nella maggior parte dei casi, la nostra realizzazione non dipende da noi, ma da circostanze predeterminate che non possiamo in alcun modo controllare né modificare. E che se facciamo del nostro meglio e falliamo, siamo lo stesso meritevoli della nostra stima e di quella degli altri.
Siamo secondi in Europa per tristezza percepita durante il giorno. Prima di noi, solamente Cipro del Nord, un paesino del cazzo che nemmeno è riconosciuto dalla società internazionale.
Queto è il risultato di uno studio effettuato, facendo riferimento in particolar modo a stress, rabbia e tristezza percepite durante il giorno
Quello che è venuto fuori da questa ricerca, è aberrante, oltre il 27% delle persone coinvolte afferma di provare una grande dose di tristezza continuativa durante l’arco della propria giornata, noi italiani poi facciamo parte della Top Ten riguardante lo stress e la rabbia accumulata sul Lavoro, e siamo all’ultimo posto per quanto riguarda il coinvolgimento emotivo sul posto di lavoro, in pratica, la maggior parte di noi, sopravvive in ufficio , fabbrica, officina o quel che è , esclusivamente per portare a casa lo stipendio, soffrendo gran parte delle mansioni a loro assegnate, con l’occhio fisso sull’orologio attendendo con ansia e frustrazione l’ora di timbrare il cartellino per uscire da quella che agli occhi di tutti ormai appare come una galera quotidiana.
In questi ultimi periodi il modo di concepire il lavoro, è piano piano scemato a livelli di totale insoddisfazione.
Una volta il lavoratore dedicava anima e corpo al proprio lavoro, ora non più…ma perché questo?
E’ un dato di fatto che non esiste più, come poteva essere negli anni passati, la meritocrazia, e le prospettive di miglioramento in ambito lavorativo ormai sono nulle e rasenti l’immobilità.
Il lavoro, come concepito ora, spreme le persone a racchiudere la propria vita all’interno di quelle fantomatiche “8 ore “di lavoro, classificando le persone in base al lavoro che fanno, si parla di una percentuale vicina al 50% degli italiani, che basano la loro vita sul lavoro, per dare un senso ad essa.
L’appiattimento della vita sul lavoro non è però privo di conseguenze, e la sensazione pervasiva di tristezza ne è proprio una. Dobbiamo riuscire a liberarci dell’idea per cui dobbiamo per forza “essere” il nostro lavoro per “valere qualcosa”: basta semplicemente farlo, nel modo e alle condizioni migliori possibili, senza per forza ammazzarsi di lavoro per essere considerati dalla società.